Obbligo di rendicontazione CSR per le imprese.
Intervista di Andrea Di Turi all’Onorevole Sergio Cofferati sulla proposta di direttiva UE.
Un paio di passi ancora e sarà fatta: la proposta di direttiva Ue che mira a introdurre per le grandi imprese l’obbligo di fornire informazioni non-finanziarie su aspetti sociali, ambientali e della diversity, entro fine maggio potrebbe essere definitivamente approvata.
«Dovremmo arrivare in porto», dice infatti l’onorevole Sergio Cofferati, parlamentare europeo (oltre alla ben nota esperienza sindacale, Cofferati anni fa in Pirelli per un certo periodo fu anche responsabile aziendale per la Csr) che ha seguito da vicino tutto l’iter della proposta in qualità di “shadow rapporteur”. Compresa ovviamente la tappa della scorsa settimana, quando il Consiglio e il Parlamento dell’Ue hanno raggiunto un accordo sul testo della direttiva.
Cosa pensa dell’accordo raggiunto?
Penso sia una buona soluzione. Questa direttiva nasce da un impegno che era contenuto nell’ultimo testo sulla responsabilità sociale d’impresa. La Commissione è stata abbastanza rapida nel proporre il testo specifico. La discussione è stata però faticosa perché c’erano grandissime resistenze soprattutto da parte di alcuni Paesi, più che in Parlamento dove invece gli elementi di convergenza, anche alla luce del lavoro già fatto sulla Csr, erano molto netti.
Le resistenze su cosa o da parte di chi provenivano?
Alcuni Paesi del Nord Europa, come la Germania o l’Inghilterra, non erano particolarmente interessati al provvedimento: diciamo che se non ci fosse stato, sarebbero stati più felici. Una volta, però, che la discussione è stata avviata, hanno trasferito questa loro resistenza sul complesso del provvedimento, in resistenze specifiche su alcuni punti, in particolare sull’area di applicazione della direttiva, vale a dire sul numero di imprese coinvolte.
Entrando nel merito, come valuta l’impianto complessivo del testo adottato?
Quelli che possono apparire dei limiti dell’impianto, devono essere guardati dal giusto verso: l’ostilità incontrata e il tema nuovo, ad esempio, sono stati elementi di difficoltà che a mio avviso sono stati risolti bene. La soluzione ora adottata dovrebbe impegnare più di 6mila aziende in Europa.
In precedenza si stimava il coinvolgimento di più imprese: si parlava di 18mila …
Sì, quella è una stima che dipendeva dal fatto che nella proposta si erano individuate delle soglie che poi non è stato possibile introdurre nella normativa, che si rivolge ad aziende con più di 500 dipendenti quotate in Borsa. Ogni Stato membro, poi, può anche introdurre una tipologia più larga di quella immaginata (in particolare con riferimento a banche, assicurazioni, istituzioni finanziarie, società non quotate ma rilevanti per attività o dimensione, ndr). È vero che il numero delle imprese interessate si è ridotto. Però c’è da tenere presente che nell’arco di quattro anni, un tempo in verità molto breve, ci sarà la revisione della direttiva. E questo consentirà di fissare soglie diverse, di aggiustare anche singoli punti di merito. Si può dire, dunque, che quello che non è stato possibile avere subito per quanto riguarda il merito, è stato in larga misura reso possibile dal metodo, dalle procedure fissate.
Restano fuori le imprese di minori dimensioni…
Progressivamente, credo sia giusto inserire un numero più grande di imprese. E guardare a una dimensione d’impresa che si avvicina di più a quelle che sono statisticamente considerate piccole e medie imprese. Il prossimo passo potrebbe essere quello di passare da 500 dipendenti a 250.
A suo avviso, l’iter ha la possibilità di concludersi positivamente entro fine legislatura? Cosa manca ancora?
Non vedo resistenze insormontabili. Ora il testo approvato al Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti) deve passare dall’aula del Parlamento Ue e dal Consiglio Ue. Dovremmo arrivare in porto prima della fine della legislatura, che è una cosa molto importante. Altrimenti rischieremmo di perderci nel mare delle nebbie…
Cosa pensa della formula “comply or explain” prevista dalla direttiva, che permette alle imprese di non fornire le informazioni richieste a patto però di spiegare perché?
Che in ogni caso è un bel deterrente. È nell’interesse delle imprese, che cadono nel perimetro di applicazione, avere comportamenti uniformi e non trasformare una eventuale mancanza di informazioni in elemento improprio della concorrenza.
Nell’accordo raggiunto si accenna anche al delicato tema del country-by-country reporting. Cosa si è stabilito al riguardo?
Sul tema, proprio io avevo presentato un emendamento alla proposta, ma non c’è stata la maggioranza per farlo passare. Tuttavia, come dicevo, anche su questo la Commissione potrà tornare entro quattro anni con la verifica della direttiva. Ancora una volta è il metodo che aiuta a costruire le condizioni perché al prossimo giro vi siano le integrazioni del caso.
Crede che sul fronte della Csr l’Unione europea possa aspirare a diventare l’area leader a livello mondiale, se già non lo è oggi?
Certamente. L’Unione europea, da quando Jacques Delors nel “Libro Bianco” del ’93 affrontò per la prima volta il tema della responsabilità sociale delle imprese, ha fatto molto. La sensibilità che c’è su questi temi in Europa è incoraggiante.
Fonte: EticaNews
Pubblicazione: 3 marzo 2014