Insieme all’EXPO per cercare nuove domande e qualche risposta
Un percorso proposto dallo IASS, Associazione Italiana Scienza della Sostenibilità
A cura di Michela Mayer
L’EXPO riguarda il futuro, non solo cosa e come mangeremo nel futuro, ma se e come le nostre società si evolveranno. Come dice Jeremy RIFKIN, nella sua introduzione come ambasciatore dell’EXPO, occorre ‘farsi strada verso una nuova rivoluzione industriale’, per rispondere ai cambiamenti messi i moto dallo sviluppo attuale.
Una ‘rivoluzione’ non è mai solo istituzionale o tecnica, ma è soprattutto una rivoluzione del modo di pensare, una rivoluzione che riguarda anche la scienza. Le rivoluzioni scientifiche hanno preceduto le rivoluzioni industriali e la scienza attuale è il risultato di queste reciproche influenze. Ma questa scienza potrà portarci verso un futuro sostenibile, in cui la specie umana possa vivere ed alimentarsi in equilibrio con il Pianeta che la ospita? E’ solo una questione di quantità – serve più ricerca – o occorre pensare a modalità di fare scienza anche molto diverse da quelle attuali?
All’EXPO vi abbiamo proposto un percorso di riflessione, una ricerca attraverso i padiglioni, le esibizioni, gli elementi anche architettonici e organizzativi, di nuove idee, di spunti per delineare le caratteristiche di una scienza del futuro: una scienza della sostenibilità.
Un punto di partenza è una riflessione su come lavorano attualmente gli scienziati. In genere, costruiscono modelli e propongono esperimenti cercando di semplificare il mondo per capirlo, e lo fanno quasi sempre separando la realtà in settori disciplinari: la fisica, la chimica, la geologia, la biologia. Ma quando si va ad applicare quanto si è capito entrano in campo non solo l’ingegneria o la medicina, ma anche la sociologia, l’economia, la psicologia: se ci preoccupiamo ad esempio del cibo che mangiamo, di come lo produciamo, di come possiamo continuare a produrne in quantità sufficiente, vediamo che la chimica si deve contaminare con la geologia dei terreni, l’ecologia con la biologia dei singoli organismi, la genetica con le nanotecnologie, e tutto questo con l’economia, le scienze della comunicazione, la sociologia…
La prima rivoluzione industriale ci ha invitato a considerare il mondo, gli organismi, gli ambienti, come macchine, e questa visione meccanicistica del mondo (spesso implicita) si è rivelata profondamente sbagliata. Le discipline sono e saranno fondamentali per aiutarci a semplificare i problemi, ma per risolverli senza danneggiare gli equilibri esistenti dobbiamo rimetterli assieme, affrontarli nella loro complessità.
La nuova scienza di cui abbiamo bisogno deve essere non solo ‘interdisciplinare’ ma ‘transdisciplinare’, guardare ai problemi nella loro complessità, fare attenzione alle semplificazioni – e alle generalizzazioni – necessarie per capire meglio, ma non sempre portatrici di soluzioni efficaci a lungo termine.
Uno dei problemi che il meccanicismo ha creato all’immaginario scientifico è che questa società si aspetta la ‘prevedibilità’: scienza e tecnologia devono poterci dire in anticipo quello che succederà, e se questo non succede – se le catastrofi si rivelano imprevedibili – l’opinione pubblica reagisce con sentimenti di sfiducia e di delusione, anche verso la scienza. In realtà in un mondo complesso ben poco è prevedibile, a volte neanche le macchine. Come dice il filosofo Edgard Morin: bisogna imparare a navigare in un oceano di incertezze fra alcuni arcipelaghi di certezze.
La nostra conoscenza è incerta non solo perché in futuro potrà sicuramente crescere e migliorare (avete mai pensato che la conoscenza è la caratteristica umana che possiamo far crescere indefinitamente senza influenzare gli equilibri del pianeta?) ma soprattutto perché gli eventi reali (non gli esperimenti controllati fatti in laboratorio) dipendono da una tale quantità di circostanze da risultare di fatto imprevedibili. Ogni essere umano, ogni essere vivente, è un sistema complesso, unico e come tale parzialmente imprevedibile, così come unici, e parzialmente imprevedibili, sono gli ecosisistemi..
Se la realtà è largamente imprevedibile e complessa, una scienza della sostenibilità dovrà tenerne conto: affidarsi al ‘principio di precauzione’, fare attenzione alle ‘emergenze’ che denunciano uno scostamento dagli andamenti che ci si aspettava, avere sempre pronto un piano B, un modo per poter tornare indietro senza creare cambiamenti irreversibili, di cui non sappiamo nemmeno immaginare le conseguenze.
La scienza attuale pretende di essere ‘neutrale’, ma cosa si intende per neutrale? Le domande scientifiche nascono sempre all’interno di una società e quindi sono influenzate dalla cultura dominante, ma anche dalle richieste e dalle emergenze della società stessa. La scienza ha messo a punto delle procedure che permettono di ‘validare’ i suoi risultati, nel senso di assicurarne la ripetibilità in condizioni determinate. Ma chi decide quali domande sono sensate o necessarie, quali esperimenti sono finanziabili, quali risultati devono influenzare le ricerche future? Quanto la scienza e le sue domande rappresentano i diversi ‘portatori di interesse’, quanto gli interessi delle donne, dei rifugiati, dei poveri, sono rappresentati nelle domande che la scienza si pone?
La ricerca scientifica è un mondo complesso in cui sono coinvolti interessi economici, sociali, politici, e in cui sono molti ‘i valori’ in gioco. Lavorare per un futuro sostenibile è già una scelta di campo, che mette in primo piano alcune domande – spesso non quelle ad alto rendimento economico a breve termine – a scapito di altre. Anche per questo è fondamentale che economia e scienza rendano esplicito il loro rapporto di interdipendenza e trovino assieme nuove sinergie e nuovi indicatori (superando ad esempio il PIL).
L’economia è necessaria allo sviluppo di una società ma deve essere funzionale al tipo di sviluppo che si vuole raggiungere: una scienza sostenibile richiede una economia sostenibile e viceversa.
Ma chi produce ‘le nuove idee scientifiche’? solo gli scienziati ‘certificati’ dalle università o anche la gente comune? Quella che ogni giorno la utilizza, la vive, la usa a volte inconsapevolmente? Quanto la scienza odierna è capace di riconoscere e utilizzare le ‘conoscenze locali’, tradizionali, anche relative all’alimentazione e all’agricoltura? Se la scienza è un prodotto collettivo è importante non solo che tutta la società sia consapevole delle sue caratteristiche e della sua importanza per un futuro sostenibile, ma anche che sia implicata nella definizione e validazione delle domande a cui rispondere. Abbiamo bisogno di una nuova sensibilità sociale e di una nuova ‘legalità’ che protegga non solo il nostro presente ma anche il nostro futuro.
La scienza sostenibile dovrà coinvolgere il più possibile la gente comune e utilizzarne le indicazioni. Dovrà essere ‘trasformativa’, capace non solo di immaginare ma di costruire il futuro, tenendo sempre presenti le possibili conseguenze di una scoperta, senza delegarle alla tecnologia e all’economia. L’utilizzo sociale di una scoperta è anch’esso un esperimento scientifico che va seguito e controllato per poter rispondere in tempo alle emergenze che potrebbero sorgere.
Una scienza sostenibile dovrebbe essere al tempo stesso tipica di una società ‘resiliente’ – capace di sopravvivere alle emergenze che ci aspettano senza soccombervi e anzi reagendo con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale – e al tempo stesso ‘rivoluzionaria’ e ‘riflessiva’ – capace cioè di andare controcorrente ma anche di rimettersi continuamente in discussione nella ricerca di una rivoluzione non solo scientifica ma anche sociale.
Per quali padiglioni e quali esibizioni che hai visitato useresti l’aggettivo ‘resiliente’?
Per quali padiglioni e quali esibizioni che hai visitato useresti l’aggettivo ‘rivoluzionario’?
Quale riflessione affideresti ai futuri scienziati per aiutarli a lavorare per una scienza sostenibile?